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TIM, storia di una folle privatizzazione: dalla gloriosa SIP alla crisi attuale

Dall’apice del successo come leader nelle telecomunicazioni alla drammatica perdita di valore: la storia di TIM è un monito sulle privatizzazioni affrettate e le conseguenze di scelte politiche miopi.

La storia di Telecom Italia, oggi TIM, è un affresco che racconta l’ascesa e il declino di un colosso delle telecomunicazioni, un percorso che si intreccia inevitabilmente con le scelte politiche e le dinamiche di mercato che hanno segnato il settore in Italia e in Europa.

Nata nel 1994 dalla fusione di diverse società del gruppo STET, tra cui la SIP (Società Italiana per l’Esercizio Telefonico), Telecom Italia si imponeva come leader indiscusso nel panorama delle telecomunicazioni, vantando una posizione di preminenza non solo in Italia ma anche a livello internazionale. La SIP, fondata nel 1964, aveva già consolidato il suo ruolo di monopolista nel settore delle telecomunicazioni italiane, e la sua trasformazione in Telecom Italia avrebbe dovuto rappresentare un ulteriore passo verso la modernizzazione e l’espansione.

Tuttavia, la decisione di privatizzare l’azienda nel 1997, sotto la guida del governo Prodi, segnò l’inizio di una serie di trasformazioni che avrebbero portato a una lenta ma inesorabile erosione del suo valore. La vendita del 35,26% del capitale attraverso un’Offerta Pubblica di Vendita fu presentata come un’opportunità per rafforzare l’azienda e per inserirla in un contesto di mercato più competitivo. Tuttavia, la privatizzazione fu gestita in maniera discutibile, con la cessione di un’infrastruttura strategica nazionale a mani private senza un adeguato controllo pubblico, un errore che non fu commesso da altri paesi europei come la Francia con Orange e la Germania con Deutsche Telekom, che mantennero una significativa presenza di capitali pubblici.

Il confronto con queste realtà europee è impietoso: mentre in Francia e Germania le compagnie telefoniche hanno continuato a essere leader nazionali, capaci di guidare progetti infrastrutturali e di mantenere una forte attività internazionale, in Italia TIM ha subito una “demolizione” progressiva, perdendo efficacia ed efficienza. La visione miope dello sviluppo delle infrastrutture TLC ha portato a una competizione sbilanciata, focalizzata sulla guerra delle tariffe a discapito degli investimenti infrastrutturali.

La storia di TIM è costellata di passaggi di proprietà, da Colaninno a Tronchetti Provera, fino all’ingresso di società estere come Telefonica e Vivendi, e più recentemente l’offerta del fondo statunitense Kkr. Ogni cambio di mano ha portato con sé promesse di rilancio e sviluppo, ma anche una crescente finanziarizzazione che ha allontanato l’azienda dalle sue radici e dalla sua missione originaria.

Oggi TIM si trova in una situazione paradossale: deve competere con Swisscom, azienda pubblica che, dopo l’acquisizione di Vodafone e la fusione con Fastweb, si appresta a diventare il suo principale competitor. Questo scenario evidenzia l’ironia di una situazione in cui una compagnia che un tempo era un gioiello nazionale, ora deve confrontarsi con un’entità che ha mantenuto quella struttura pubblica che TIM ha perso.

La privatizzazione di TIM è stata una scelta che ha avuto ripercussioni profonde e durature, non solo per l’azienda ma per l’intero paese. La perdita di valore di TIM, che da una delle più importanti società di telecomunicazioni al mondo è passata a una situazione finanziaria precaria, è un monito sulle conseguenze delle privatizzazioni affrettate e delle politiche industriali carenti. La storia di TIM è un esempio di come le decisioni politiche possano influenzare il destino di un’intera industria e di come, in alcuni casi, il controllo pubblico possa essere un fattore di stabilità e crescita nel lungo termine.

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